… quando si chiude il sipario, che resta?

 

 

Torno ad essere un uomo quasi comune, che fa le stesse cose di molti altri uomini. E siccome sono egocentrico, megalomane, irrazionale e pazzo, la cosa mi fa soffrire. Non riesco a staccarmi dal palcoscenico perché è lì che veramente vivo, è lì che mi sento veramente forte e che ogni inibizione si annulla. A me l’alcol non mi fa niente. Posso pure essere ubriaco, ma non certo mi metto a ballare per le strade oppure a fare il compagnone con tutti o ancora corteggiare donne immaginandole come prede… per carità… l’unica cosa che mi fa impazzire, che mi rallegra e mi intristisce di una sana tristezza è la scena. L’unica vera fonte che mi sblocca è la parte che devo recitare, il ruolo che devo assumere in uno spettacolo, la presenza da sostenere, il costume da indossare, il trucco… il viso che si riesce a smascherare ogni lato intimo, profondo, umano. E’ sotto gli occhi, sugli zigomi, che leggo, guardandomi allo specchio, la storia del mio teatro, le sere in camerino, quelle volte in cui non sono piaciuto, quelle altre volte in cui mi hanno osannato o mi hanno paragonato a questo o quell’altro…

 

A fine spettacolo, il saluto è un momento emozionante. Dico la verità… è forse l’unica cosa che differenzia l’attore dagli altri mestieri. L’attore ha bisogno del plauso, delle lodi! E ci sono anche attori che dal pubblico plaudente prendono le distanze. Ma come si fa? Io ho bisogno dell’applauso del pubblico! Ho bisogno di sentirmi diverso altrimenti non capirò mai fin dove arriva la mia ignoranza! Ho bisogno di quelle parole urlate dal buio della sala che mi incoraggiano a fare di meglio, quando poi, per fare di meglio, bisognerebbe solo aspettare il passare degli anni e quindi il continuo di un percorso e l’ampliarsi della preparazione con uno studio approfondito delle varie tecniche e delle varie macchine recitative e “attoriali”.

 

Io, da attore, voglio essere coccolato. Devo percepire che a fine spettacolo la gente ha capito. Devo augurarmi che alla gente sia piaciuto. Devo sperare che tornino al prossimo spettacolo, altrimenti… non lo voglio nemmeno pensare.

Quando si chiude il sipario, dopo i saluti finali, con complimenti veri o falsi dei colleghi, con il sudore che mi cola dalla fronte, con una espressione unica, sempre quella, mi ritiro in camerino.

Quella espressione che hanno in mente coloro che veramente vivono con me la scena e che da me si aspettano qualcosa… Quei colleghi e quei compagni di scena che a fine spettacolo non mi abbandonano, ma nemmeno mi portano con loro per fare numero al ristorante oppure perché “l’invito bisogna farlo a tutti, figuriamoci al capo che la prossima volta potrebbe non dare le parti”.

 

Il capo… spesso troppo severo, troppo duro. Addirittura qualcuno mi ha appellato “dittatore”, ma mai però i registi hanno avuto problemi con me, ho sempre lavorato con amore e completa disposizione.

Poi quando ho diretto io un’opera, non ho mai fatto perdere tempo agli attori. Per me le prove sono sacre! Il rispetto è alla base di tutto… bisogna rispettare la puntualità, se stessi, i colleghi, il pubblico e il mestiere. Un mestiere sottovalutato e nonostante gli strombazzamenti che fanno per lo “ spettacolo”, nemmeno tanto capito.

Quando finisce il momento della scena, il capo… l’attore… colui che recita, o meglio, vive una storia… si ritira in camerino. Espressione di gioia, di adrenalina, di successo, ma nel cuore, profonda malinconia…

 

Quella assoluta malinconia che vivo quotidianamente e che nasce da un continua lotta con me stesso e con il male infinito dell’inquietudine e dell’ansia, in scena scompare. Sono veramente me stesso e mi spaventa. Mi spaventa pensare che mi piace prendere a schiaffi le persone, che mi piace sentirmi tradito oppure tradire, mi piace tornare bambino in un attimo oppure di nascondere qualcuno nell’armadio, mi piace essere un prete, un facchino, un poliziotto… mi piace essere tutto per due ore e poi niente per l’eternità.

 

 

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